“Nostro mondo alieno”
di Laura Grimoldi
Il libro di Roberto Saviano prende l’avvio dal porto di Napoli, con la scena agghiacciante del container pieno di cadaveri “congelati, tutti raccolti, l’uno sull’altro. In fila stipati, come aringhe in scatola. Erano cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano documenti l’un con l’altro. Ecco dove erano finiti.”
Il film di Matteo Garrone inizia con la straordinaria scena dei camorristi che si fanno la lampada e parlano una lingua incomprensibile. Garrone fin dall’inizio li presenta non come esseri umani, ma come alieni.
Come la leggenda popolare dei cinesi che non muoiono mai, si concretizza nelle parole di Saviano, che inizia proprio da quel container il suo incredibile viaggio nel mondo della camorra napoletana; così Garrone inizia il suo racconto cinematografico riprendendo questa distanza, questa incredulità che le pagine di Saviano trasmettono.
No, non può essere vero – viene naturale pensare, è un film, è il solito film sui gangster, sulla mafia. Eppure Gomorra di Garrone, acclamato a Cannes che gli ha dato il Grand Prix, non è il solito film sui mafiosi, un film retorico all’americana che fa dei gangster dei modelli da seguire; tutto quello che vediamo sullo schermo è proprio così, è vero e i gangster non sono eroi ma uomini, ragazzi o bambini soli.
E’ vero il quartiere-ghetto delle Vele, a Scampia. Ripreso dall’alto come se appartenesse ad un altro pianeta; ripreso dal di dentro tra i suoi tortuosi collegamenti, abitato da un’umanità che deve sopravvivere nella solitudine, guardandosi sempre alle spalle. Sono veri i nuovi camorristi che si fanno la lampada e il piercing e un minuto dopo sparano e fanno i morti.
Non siamo su Marte, siamo a Napoli, esattamente a Scampia il cuore della camorra o meglio del “Sistema”, perché la parola “Camorra” nessuno la usa più: un’organizzazione affaristica globale che fonda i suoi affari sia sul sangue che sulle operazioni finanziarie.
Garrone costruisce tutto il film su questa fredda messa a distanza che crea una sconcertante alienazione, a partire dalla scelta di far parlare i camorristi nella loro stessa lingua, scelta che necessita dei sottotitoli perché risulta una lingua assolutamente incomprensibile.
Il film racconta, attraverso cinque storie che si intrecciano senza mai incontrarsi, una delle massime piaghe italiane, ridando al cinema il ruolo che in momenti difficili della storia ha avuto: il ruolo di medium sociale. Così come durante il neorealismo il cinema metteva sullo schermo il dramma dell’Italia uscita dalla guerra, Garrone ora denuncia attraverso il suo cinema questa dolorosa piaga del nostro Paese.
C’è Pasquale, la figura più poetica del film, il sarto che dà lezioni di taglio e cucito ai cinesi; che imbastisce e prepara eleganti vestiti per pochi euro e li vede indossare dalle dive che passano sulla passerella di Hollywood, di Cannes o di Venezia. C’è Franco, l’elegante e criminoso signore che preleva i rifiuti tossici dalle grandi aziende, interpretato da Toni Servillo. Ci sono: Totò il ragazzino che viene iniziato al “Sistema”; Don Ciro il porta-soldi; Marco e Ciro i due ragazzini che sanno a memoria “Scarface”, urlano con la pistola in mano “il mondo è nostro”, non vogliono avere nessuno sopra, vogliono farcela da soli e così verranno ammazzati e buttati come sacchi.
Non c’è speranza nel film di Garrone come anche nel libro di Saviano.
Uscendo da Gomorra si ha proprio la sensazione che il bandolo della matassa di questa piaga oramai radicata nel nostro Paese non lo si trovi più.
Sicuramente dall’alto non lo si vede, l’unica speranza è che qualcuno lo recuperi da dentro.