Don Zeno – L'uomo di Nomadelfia (Miniserie)

La strada di Nomadelfia

Con la miniserie di Raiuno sulla figura di Zeno Saltini, si estende l’elenco dei preti raccontati dalla televisione in questi ultimi anni. È curioso, o forse fisiologico: la società si secolarizza, i seminari si svuotano, e il piccolo schermo racconte storie di preti.

Giulio Scarpati, che si è appena calato nei ruvidi panni di don Zeno, ne aveva già al suo attivo tre: uno di fiction, il don Silvestro di Aggiungi un posto a tavola, due “biografici”, don Di Liegro della Caritas romana e un missionario in Sudamerica. Flavio Insinna, per parte sua, ha don Bosco e don Pietro Pappagallo delle Fosse Ardeatine, Daniele Liotti dopo aver portato sullo schermo sant’Antonio da Padova è stato don Gnocchi, il “padre dei mutilatini”; Sergio Castellitto spazia da padre Pio a don Milani; a inizio anni ’90 c’era stato il don Orione di Enrico Maria Salerno, un paio d’anni fa è arrivato anche don Primo Mazzolari per la regia di Gilberto Squizzato.

Senza andare a cercare le fiction dedicate ai papi e ai santi, lasciando perdere anche i preti d’invenzione letteraria, è già uno spettro ragguardevole, che punta su persone di forte carisma sociale, attive spesso in tempi di crisi e di guerra. Figure di combattenti che traggono ispirazione e forza dalla dimensione religiosa, e spesso si trovano a combattere su due fronti: quello esterno, della società civile, e quello interno, della chiesa.

Non si sottrae a questo schema, anzi lo potenzia, il Don Zeno firmato da Nicola e Giuseppe Badalucco, Franca De Angelis e dal regista Gianluigi Calderone, che non a caso sottotitola l’uomo di Nomadelfia. Perché il diventare prete di Zeno Saltini sembra una resa a Dio dopo una lotta con l’angelo durata otto giorni e otto notti, e anche dopo, il suo essere “uomo di Dio” è direttamente proporzionale al suo essere “fratello degli uomini”, costi quello che costi. Magari la riduzione allo stato laicale.

Un prete radicale don Zeno, da Atti degli Apostoli prima maniera, senza sconti o sfumature. O così o così. Un prete contadino, contadino possidente che dà tutto e di più ancora, della bassa emiliana, quella così efficacemente descritta nella sua umanità sanguigna, per altri versi e altri preti, da Guareschi. Il racconto televisivo è efficace nel rendere questo contesto regionale che è specchio e parte stessa del carattere del protagonista. Per una volta la tv parla un italiano regionale che non è il romanesco o il napoletano o il siculo, e lo fa con accenti di credibilità anche nella messa in scena di luoghi e case che si sottraggono al rischio del falso contadino. Il fatto che la fotografia sia firmata dal direttore storico di Pupi Avati, Cesare Bastelli, avrà certo la sua parte in questo merito. Quello che non ci si aspettava però era che Scarpati riuscisse a calarsi in quest’anima di fuoco impastata di terra e di sangue, e invece’

Per il resto il film riesce a tenersi in equilibrio pur raccontando un personaggio “senza misura”, alla ricerca – come dice il primo tra i suoi figli d’adozione – di guerre impossibili da vincere, se no non se ne fa niente. Non è agiografico il ritratto che ne esce, né la chiesa finisce sul banco degli imputati per ottusità e ipocrisia. Luci e ombre sono distribuite su tutta l’immagine e la rendono verosimile. Il comunismo mistico, il populismo semplificatorio dei “due mucchi”, i poveri e i ricchi, restano un dilemma evangelico, che ciascuno deve sbrogliare, anche oggi che sono venuti meno i pericoli di confusione con il modello marxista.