Reality di classe
di Cecilia Salizzoni
Quando un film ha vinto la Palma d’Oro a Cannes e la critica è unanime nel definirlo un capolavoro, o comunque un grande film, si può dissentire e avanzare delle perplessità?
Se il film è La classe di Laurent Cantet, il contraddittorio parrebbe non solo lecito ma imperativo, dal momento che questa è la pratica quotidiana nella terza media multietnica di Parigi che il regista segue – o dirige (l’alternativa non è irrilevante) – durante l’arco di un anno scolastico, nelle ore di lezione del “prof” di lettere, autore del libro di successo Entre les murs in cui racconta la sua esperienza didattica.
«Documentario di finzione» lo ha definito il regista, e proprio in questo starebbero i meriti e la suggestione di un film capace di trasformarsi «davvero in una finestra che si apre sul mondo» (Mereghetti, Corriere della Sera).
Eppure fondere i confini tra realtà e finzione, di questi tempi, non è davvero una novità. E neppure separare l’ambiente “scuola” dal resto del mondo, facendo del microcosmo un vetrino da laboratorio. Specie se non è chiaro il tipo di esperimento che vi si conduce. Infatti cos’è, uno spaccato di scuola francese quello in cui lo spettatore si trova catapultato per due ore e passa, o è l’idea di scuola del regista, o quella del professore protagonista, o, ancora, quella dei ragazzi? O tutte queste cose insieme? e che idea è?
Cantet porta avanti un discorso tanto claustrofobico quanto concitato, riprendendo lo scontro verbale senza tregua e soluzione di allievi e insegnante, senza prendere posizione, solidale con l’uno e gli altri, fino a che non lascia cadere entrambe le parti dentro una pochezza umana e pedagogica che traspare dall’inizio ma è negata, e per certi versi resta negata anche quando è ormai palese.
Quanto al professore, dall’inizio alla fine del film conduce un’azione didattica che punta sul rapporto paritario e sulla continua stimolazione di studenti che mancano di concetti elementari come distinzione dei ruoli, senso del limite, rispetto della persona. Poi però pretende che non gli diano del tu, eseguano un comando e si scusino sinceramente per aver oltrepassato quel limite che lui non ha demarcato.
E che dire della partecipazione delle rappresentanti degli studenti allo scrutinio finale, mostrata come un fatto normale e seguita immediatamente dalla dimostrazione concreta del perché tale partecipazione sia improponibile pedagogicamente? Il regista non rileva l’incongruenza e le altre inverosimiglianze sparse nel testo, così come il prof preso in contropiede dalle due allieve non si preoccupa di stabilire la verità su quanto da lui affermato nello scrutinio e su quanto riportato in classe dalle ragazze.
Alla fine resta impressa la ragazzina africana che, a classe ormai vuota, si avvicina alla cattedra per comunicare timidamente al professore la sua impressione di non aver imparato nulla.
Ecco, potremmo fare silenzio e ripartire da lì, s’il-vous-plaît?
Il dito nell’obiettivo
Si è fatto il nome di Nicolas Philibert e del suo “Essere e avere” girato in una pluriclasse elementare del Giurà, come termine di confronto per l’ultimo lavoro di Laurent Cantet, ma lì la natura documentaria era chiara, come la neutralità del regista nell’ambiente classe. Qui tutto è incerto e confuso. Il regista sembra neutrale, ma non lo è. I ragazzi sembrano recitare se stessi, ma in realtà mettono in scena caratteri che non sono i loro e reazioni suggerite dal regista. Si presenta come cronaca reale, ma per ammissione degli autori – regista e professore – è la messa in scena di “un’utopia possibile”.
L’edizione italiana, per parte sua, toglie un ulteriore elemento di veridizione, presentando la classe come una terza media, quando in realtà si tratta di una “quarta”, corrispondente a una nostra seconda superiore, lasciando irrisolta nello spettatore l’incongruenza visiva.
Cantet conosce il proprio mestiere, è indubbio; il film non è seriale, le provocazioni per approfondire il modello di scuola non mancano, specie coi tempi che corrono. Ma il processo filmico, per costruzione e risultati, non è diverso da quello di un reality televisivo. E il problema dello statuto di verità di un reality ‘ cioè l’impossibilità di stabilire ciò che è vero e ciò che non lo è – trasferito dentro la scuola, dovrebbe suscitare qualcosa di più di una perplessità.