Il nome dell’amore
Omosessualità e superficialità emotiva
Certi temi, certe realtà impronunciate e impronunciabili per anni anzi secoli, emergono d’un tratto come geyser portati in parte dallo spirito del tempo, in parte pompati ad arte. Si può dire che l’omosessualità sia rappresentativa dello spirito del nostro tempo? Non spetta a noi riflettere sull’essenza del problema, quanto sul ruolo e sulla natura del concerto mediatico attorno al tema, cui abbiamo assistito la settimana scorsa tra cinema e televisione.
Nelle sale è ancora in programmazione Milk, premiato ora con l’Oscar per il miglior interprete maschile, in Rai invece, in quella che un tempo era la rete a mission familiare, il tema è stato usato come leva per risollevare l’audience dell’evento più popolare e più in declino della televisione italiana, Sanremo. Prima con le polemiche tra canzoni ammesse e non ammesse, poi con la performance di Benigni nella prima serata, l’orchestrazione è stata costruita con sapienza retorica.
Il via al Festival di Bonolis con bambina in studio e Mina in video che canta Nessun dorma, sembra accreditare la canzonetta popolare come erede della grande tradizione musicale italiana, la lirica, e il Festival come il tempio dove si impara ad avvicinarsi fin da piccoli a questa tradizione. In questa cornice fa il suo ingresso Benigni che è sempre se stesso, un Pinocchio sospeso tra le due nature, e dunque inizia dalle boccacce e dai calci negli stinchi a mastro Ciliegia, che in questo caso è il mondo politico e Berlusconi in particolare, per arrivare alla dichiarazione d’amore a Geppetto, che però diventa un inno all’amore omosessuale.
Per arrivarci fa un tiro mancino alla Zanicchi, come in un concorso non dovrebbe accadere, ma Pinocchio è Pinocchio. D’altra parte il passaggio retorico è fondamentale: stigmatizzare l’amore eterosessuale ridotto a sesso nella cultura attuale, smascherandone la spudoratezza incresciosa fino al ridicolo – e chi poteva non essere d’accordo! – per sdoganare poi quello omosessuale come relazione d’amore.
“L’amore copre tutto e l’unico peccato è la stupidità” vado a orecchio.
Per sostenere l’assunto, cambia registro, dal comico al drammatico: Benigni lascia il burattino e diventa l’artista serio, quello che declama Dante. Questa sera, invece, Wilde, perché Dante, pur amatissimo anche da Oscar, sulla questione sodomia non la pensava allo stesso modo. Supportato dalla regia che ora stringe i piani e lascia il freddo filtro blu notte che fin qui ha inondato il palco, per uno sfondo scarlatto cui alterna il nero, Benigni interpreta, da grande, una lettera che Wilde scrisse a “Bosie” Douglas dal carcere durante il primo processo, quello che non arrivò a un verdetto, lettera in cui l’artista, come affermerà in seguito, “cercava di mantenere vivo il vero spirito e la vera anima dell’Amore” e in cui definiva l’amato: “grazioso ragazzo dal cuore degno di un Cristo”. Lo stesso ragazzo che, una volta condannato e recluso, metterà a fuoco nell’epistola De Profundis come causa della propria rovina artistica ed umana: fannullone, opportunista, depravato, degno erede di una schiatta degenerata, uno cui “l’Odio accecava le pupille e la Vanità cuciva le palpebre col fil di ferro”. Così quello che nella prima lettera era l’amore più nobile diventa “il mondo imperfetto delle passioni rozze e incomplete, dell’appetito che non fa distinzioni, del desiderio che non ha limiti, della bramosia che non ha forma”.
Dov’è la verità? Difficile dirlo se ci si appella a un artista che poneva la bellezza e il volere individuale in cima alla piramide dei valori; per il quale il vero e il falso sono soltanto forme esistenti nel nostro intelletto. Vero è che Wilde scrive “il peggior vizio è la superficialità”, non la stupidità. Lo scrive nelle prime pagine e il De Profundis è lunghissimo; più avanti scriverà che il peccato è nell’abitudine.
Forse potremmo fermarci a questo, all’abitudine a questa superficialità emotiva, amplificata dai media, che dà nomi alle cose senza conoscerne l’essenza, che fa di Wilde una bandiera gay da sventolare in un corteo o sul palco di un festival di canzonette, miliardariamente foraggiato dal denaro pubblico, col plauso in diretta e triplice inquadratura dell’Arcigay.