Miracolo a sant'Anna

Un americano in Garfagnana

di Cecilia Salizzoni

 

Dell’ultimo film di Spike Lee ambientato in Italia, sui monti della Garfagnana, nel 1944, si è parlato molto, prima che il film arrivasse nelle sale. Se si fosse atteso di vederlo, ogni polemica sarebbe caduta prima di levarsi. Perché l’ambientazione di Miracolo a Sant’Anna è storica: il conflitto lungo la Linea Gotica, l’avanzata dell’esercito americano, la resistenza invelenita dei nazisti, quella non sempre immacolata come agiografia vorrebbe dei partigiani, l’eccidio nazista della popolazione civile a Sant’Anna di Stazzema. Ma il discorso cinematografico non è storico. Il problema è capire quale sia e se veramente ci sia un discorso cinematografico.

L’intento di fondo è la rivendicazione dei diritti della popolazione nera dentro la società americana. Cosa non nuova per il regista afro-americano che ha fatto di questa battaglia il tema portante di una carriera militante. E nuova non è neppure la via che sceglie, rivendicare cioè la piena appartenenza al Paese attraverso il tributo di sangue versato nello sforzo bellico da un battaglione di colore, facendo giustizia del disprezzo razzista dei superiori bianchi e riconoscendo l’eroismo a chi era stato mandato al macello. Prima di lui lo aveva fatto, per dirne uno, Edward Zwick nel 1989 con Glory ‘ uomini di gloria, che aveva portato sullo schermo l’antenato di questo battaglione “nero”, mandato ad analogo destino nella Guerra Civile Americana.

Ma Spike Lee sceglie di mescolare tempi e registri, per raccontare la storia di quattro soldati dispersi in Garfagnana, abbandonati dai propri capi, traditi da un partigiano venduto e infine uccisi dai tedeschi, partendo da un alquanto improbabile omicidio eseguito nel 1984 allo sportello della posta centrale di Manhattan da quello che si scoprirà essere l’unico superstite, per finire su una spiaggia ancora più improbabile dove il bambino italiano salvato dai soldati nel ’44, ricompare ora adulto e miliardario, dopo aver saputo in modo insistentemente improbabile dell’accaduto, per assistere in tribunale il colpevole. È vero, il miracolo e più ancora l’elemento fiabesco combinato all’ingenuità infantile che accomunano il piccolo Angelo e “il gigante di cioccolato” che lo salva, sono il tratto caratterizzante del racconto, ma anche questo viene portato sulla scena in modo così maldestro che parrebbe uscire da una fiction nostrana, non dalle macchine narrative hollywoodiane capaci di rendere credibili sullo schermo le cose più assurde. E qui subentra il dubbio. Perché nelle interviste Spike Lee ha dichiarato di essersi ispirato al neorealismo italiano, ma non troviamo agganci nel film con la poetica neorealista, se non esteriori. Non è neorealista l’iperrealismo dello scontro al fiume e della strage nel villaggio, non lo è la dimensione magico-fiabesca che forse guarda al surrealismo di Miracolo a Milano senza però comprenderne la lezione. Non è neo-realista la premessa giustizialista. Che Spike abbia “voluto fare l’italiano”, come troppi italiani dal dopoguerra hanno voluto fare gli americani? Sarebbe una lezione inconsueta per il melting culturale del nostro tempo e spiegherebbe anche il fatto incomprensibile degli italiani e degli afro-americani che nel film sembrano parlare la stessa lingua.