Il giardino di limoni

È di limoni l’albero piantato in Eden

di Cecilia Salizzoni

 

É più facile che la voce di Israele arrivi in Italia attraverso i suoi scrittori, piuttosto che con il cinema. Negli ultimi anni, tuttavia, qualcosa si sta muovendo. Nella stagione passata abbiamo visto passare nel circuito normale Meduse della coppia Keret-Geffen e La banda di Eran Kolirin, ora in home-video; in dicembre sono usciti il film tratto dal romanzo di David Grossman Qualcuno con cui correre e Il giardino di limoni di Eran Riklis. Regista, Riklis, che comincia a ritagliarsi un’identità nel panorama internazionale. In Italia lo si è visto per la prima volta alla Mostra di Venezia con Finale di coppa (1991) che metteva in scena il conflitto ma anche la possibilità di incontro sul piano umano tra israeliani e palestinesi, con modi narrativi capaci di alternare il tono tragico a quello comico-grottesco. Modalità che un pubblico più ampio ha potuto apprezzare nel film del 2004 La sposa siriana, in cui il regista approfondiva il tema dell’assurdità di divisioni e confini, che prima di essere geo-politici sono mentali e culturali. Ritorna ora sullo stesso soggetto con Il giardino di limoni, restringendo però il campo a israeliani e palestinesi di Cisgiordania – nella Sposa siriana l’intrico etnico, dalle parti del Golan, includeva anche drusi e siriani – e trattenendo quasi del tutto il registro grottesco per concentrarsi sul dolore che la divisione insanata tra i due popoli provoca nella vita delle persone. Ancora una volta sorprende la capacità del regista di “delocarsi” rispetto alla propria appartenenza, senza per questo passare sul fronte opposto. Il suo sguardo è interessato alle persone, non alle loro rappresentanze politiche, colpevoli, da una parte e dall’altra, di aggravare dolore e sradicamento, impedendo l’accesso a soluzioni possibili di convivenza.

Lo sradicamento è il vero protagonista del film che ruota attorno all’agrumeto di Salma, vedova palestinese per la quale costituisce unica eredità e risorsa, ma per il nuovo vicino ebreo e i responsabili della sicurezza rappresenta una minaccia incontrollabile. Per sventura della vedova il vicino è il ministro della difesa di Israele, e il decreto di abbattimento del frutteto è quasi inoppugnabile. Lo riconoscono perfino le autorità palestinesi: una causa persa in cui loro certo non si mettono, ma lei non si azzardi ad accettare il risarcimento in denaro…

Non che i figli della donna se la prendano più a cuore – il maschio è in America, le femmine hanno la loro famiglia. Allora sarà lei a fare resistenza, con l’aiuto di un giovane avvocato segnato lui pure da una buona misura di solitudine e sradicamento – ha studiato in Russia dove ha lasciato una moglie e una figlia piccola. Dall’altra parte del confine in apparenza le cose sembrerebbero andare diversamente, ma anche sotto il tetto raffinato di Mira, la moglie del ministro, solitudine, sradicamento e perfino reclusione parlano lo stesso linguaggio doloroso. Tra le due donne, separate culturalmente e psicologicamente al punto da non rivolgersi la parola, si stabilisce un legame inespresso ma in grado di pesare.

Come già nella Sposa siriana, Riklis guarda alle donne come alle uniche in grado di far saltare i blocchi mentali che imprigionano loro stesse e il Paese, se si assumono il rischio della libertà, dello scavalcamento delle reti. La soluzione salomonica, formulata anch’essa da una donna, non risolve la questione, ma riduce il danno del 50%. L’immagine finale è un amaro paradosso, ma forse un inizio.