Dal cinema un racconto di dolore e riscatto, colpa ed espiazione
Lacrime di speranza
di Piergiorgio Franceschini
Una straordinaria, quanto a interpretazione, protagonista: Juliette, libera dopo quindici anni di prigione per aver ucciso il figlio di sei anni. Ha pagato. Pesantemente. Con la galera, certo. Ma più ancora con il totale abbandono della famiglia: ripudiata dai genitori e indirettamente dalla sorella Léa, che ora però l’accoglie in casa nella piccola città di Nancy e le offre una chance. Con orgoglio e pudore, Juliette è in cerca di sguardi non giudicanti, disposti a filtrare senza pregiudizi il suo dramma, incerto nelle motivazioni fino alla fine.
Attorno a lei, Philippe Claudel, affermato scrittore francese al debutto dietro la macchina da presa, costruisce la sua opera prima Ti amerò sempre (nel titolo originale suona piuttosto Ti amo da molto tempo). «Il tema guida è l’infermità», spiega il regista e sceneggiatore. In effetti, quella di Juliette è la tragedia-madre accanto a un panorama di storie sofferte, più o meno collegate alla protagonista: dalla triste fine dei genitori, papà ucciso dal dispiacere e mamma oggi malata di mente, fino alle vittime della guerra irachena, passando per un commissario di polizia in cerca di libertà suicida. Tutte specchio della diffusa fatica di vivere, originata dalla precarietà fisica e psicologica, personale e collettiva. A più livelli di intensità, fino appunto al dolore più atroce, la morte, compresa quella colpevolmente anticipata, di un figlio già condannato dal destino: «la peggiore prigione, come una mano che ti squarta il cuore e il ventre», confessa Juliette l’incarnazione della sua disperazione in un pianto liberatorio.
Ma il film di Claudel non è un viaggio nei bassifondi dell’animo. Anzi. E’ un graduale percorso di riscatto, di ritorno alla vita, di fiducia riconquistata. Senza facili sconti. Ma attraverso la normalità. Quella che si respira dentro il contesto familiare di Léa ‘ due figli adottivi, un buon marito, un simpatico suocero afono per un trauma cranico e ora “drogato” di libri ‘ e nella ricca cerchia di amici, capace di rigenerare accoglienza, calore, nuovo affetto. C’è la lezione del già vissuto, consegnato all’arte pittorica e alla letteratura, a cui Claudel sembra attribuire un evidente potere taumaturgico. E c’è, infine ma non ultimo, un angelo, come quello di cui si racconta ai bambini, che sembra vegliare sui protagonisti, seppure per pochi istanti. Non un dettaglio, però. Soprattutto pensando a tutt’altre soluzioni, come il bionico Will Smith nel recente Sette anime di Muccino, pronto a togliersi la vita al culmine di una donazione d’organi da guinness dei primati per sedare il senso di colpa per le sette vittime di un incidente d’auto da lui provocato. Lì una soluzione paradossale, spettacolarizzata e tutta terrena, alla sofferenza. Qui, invece, una vicenda dolorosa avvicinata con delicato realismo, compassione e una velata invocazione alla trascendenza. C’è stile e sostanza, emozione e intelletto in questo debutto registico, in cui Claudel gioca sul non-mostrato e sul non-detto, e con una colonna sonora costruita solo sul contrasto fra lo stridore di una chitarra elettrica e le armonie di quella classica. Destinate, queste ultime, a crescere d’intensità.