Il modo in cui viene sviluppato il racconto filmico permette inoltre di approfondire il tema della semplicità evangelica, stoltezza e scandalo dei sapienti, e in particolare la modalità comunicativa delle parabole utilizzate da Gesù nella predicazione.
L’altra faccia dei libri, cioè il legame tra libro e vita, è offerto da un raffinato film epistolare che racconta la relazione d’amicizia tra una scrittrice americana, Helene Hanff, e i dipendenti di una libreria londinese specializzata nell’usato. Si tratta di 84 Charing Cross Road di David Jones (Gran Bretagna 1986). Tratto dall’autobiografia della scrittrice realmente esistita e interpretato da due mostri sacri come Anne Bancroft (la scrittrice) e Anthony Hopkins (il libraio capo), il film tesse con grande delicatezza i fili di un’amicizia che nasce dall’amore per i libri: attraverso la richiesta di vecchie edizioni, la risposta a quella richiesta, le chiose ai libri ricevuti, l’attenzione alla vita reale e alle esigenze delle persone, emerge il significato che le opere scritte dall’uomo hanno per l’esistenza delle persone e la loro umanizzazione, ma anche le profonde trasformazioni in atto nella società occidentale, al di qua e al di là dell’Oceano, tra il dopoguerra e gli anni ’70. (C’è anche una gustosa reazione di ripulsa della traduzione della Bibbia voluta da Enrico VIII, rispetto alla Vulgata Latina… e a dirlo è un’ebrea).
L’ideale proseguimento a livello di costume culturale e sociale lo troviamo in un film di Stephen Frears uscito lo scorso anno, dal titolo The Queen (Gran Bretagna 2006) che mostra il punto d’arrivo della rivoluzione degli anni ’60 in Inghilterra. La tragica morte della principessa Diana porta allo scoperto la frattura culturale di una società che ha ormai sostituito i valori della tradizione con nuovi valori e modelli presi dal mondo dei media e dello spettacolo. Il risultato è l’impossibilità di comunicazione tra la regina Elisabetta e il suo popolo. In mezzo ai due poli, a cercare una possibile mediazione, si trova il primo ministro Tony Blair, laburista cresciuto in una famiglia tory.
Godibile e raffinato al tempo stesso, il film si presta anche per un ragionamento sul cristianesimo contemporaneo che vive un problema analogo a quello vissuto da Elisabetta II: parlare un linguaggio che non è più compreso, perché parole e simboli sono stati svuotati dall’interno e sostituiti con altri valori e significati.
Questo film richiama la nostra attenzione sulla natura del linguaggio cinematografico, linguaggio simbolico che utilizza immagini e metafore per comunicare idee, emozioni, sentimenti, esperienze di vita, o anche solo per divertire. Spesso le metafore e i simboli a cui il cinema ricorre per raccontare storie che non sono religiose, sono immagini religiose attinte all’inesauribile fonte della Bibbia.
Un esempio è il film di Robert Zemeckis, CastAway (Usa, 2000), che apparentemente racconta una storia d’amore avversata dalla sorte, e in realtà mette a fuoco il delirio di onnipotenza della civiltà occidentale che presume di poter dominare il tempo e non si accorge dell’intima fragilità cui conduce la rincorsa del progresso tecnologico.
In prima battuta il modello letterario che appare è Robinson Crusoe, perché il protagonista finisce naufrago per anni su di un’isoletta sperduta nell’Oceano. Ma tale modello è utilizzato più per prendere le distanze che per dire una somiglianza, mentre i riferimenti più significativi sono quelli biblici, dal Diluvio a Giona. Tutto il percorso di rigenerazione sull’isola inoltre è costruito sul modello del Deserto, dove Dio manda l’uomo che si è smarrito correndo dietro ai desideri del proprio cuore, e lì ‘ nella privazione di tutto, nella sofferenza, nel rischio della vita ‘ parla al suo cuore, gli ridà vita e senso, permettendogli infine il ritorno e una nuova partenza.
L’esperienza del protagonista offre anche l’occasione per approfondire un tema biblico fondamentale come quello del male e del bene che a volte sembrano rappresentare due facce di una stessa medaglia e che l’ambiguità della condizione umana, rende difficile discernere. In questa stessa complessità misteriosa si inserisce il dilemma tra Provvidenza e Caso, e quello tra krònos e chairòs, tra un tempo che fugge in avanti lasciando l’uomo nella precarietà e nell’insignificanza delle urgenze quotidiane, e un tempo che ha una dimensione di compiutezza e di assoluto, sottratta alla schiavitù dell’orologio: il tempo di Dio che è già innestato in quello umano, attraverso l’Incarnazione, e apre varchi, per chi lo cerca, nel susseguirsi incessante dei giorni.
Ripercorrere queste immagini bibliche riportandole nel loro contesto originale, significa porsi la domanda sul linguaggio simbolico che la Bibbia adopera: perché Dio sceglie questo linguaggio per rivelarsi e per parlare all’uomo? Perché non utilizza un discorso razionale, astratto, scientifico? Qual è il problema culturale – di sintonizzazione e di comprensione – che un linguaggio simile pone all’uomo d’oggi? Ci appartiene ancora questa lingua o dobbiamo riscoprirla? le domande ci portano alle contraddizioni e alle tendenze che caratterizzano la cultura contemporanea.
Oltre che in direzione simbolica, sarebbe necessario uno sforzo di dilatazione prospettica verso la cultura che ha dato vita alle sacre scritture, cioè verso l’ebraismo. Ma se i libri, e anche i romanzi, per facilitare questa conoscenza, non mancano, il campo audiovisivo è meno ricco, o forse più complesso.
Tra i film a soggetto, va ricordato il lavoro di Alessandro D’Alatri I giardini dell’Eden (Italia, 1998) che, pur con qualche deriva newage, cerca di ricostruire da un punto di vista ebraico la formazione di Gesù, cioè il periodo dall’infanzia alle tentazioni nel deserto, su cui le fonti evangeliche tacciono. Il risultato è ricco e stimolante.
Tra i film di cultura ebraica originale, Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber (Usa 2005) – film singolare tratto da un libro ancor più singolare – consente di mettere a fuoco l’importanza della memoria, del fare memoria della propria storia familiare e comunitaria.
La storia è quella di Jonathan Safran Foer, giovane ebreo americano che torna in Ucraina alla ricerca del villaggio da cui è riuscito a fuggire il nonno durante la seconda guerra mondiale con l’aiuto di una donna che Jonathan vorrebbe conoscere. Ma lo sterminio nazista ha fatto piazza pulita dei luoghi e delle persone; il regime comunista ha rimosso la memoria a livello collettivo, e ora il consumismo sfrenato di stampo occidentale sta completando l’opera. Con l’aiuto di un coetaneo ucraino, Alex, del nonno nevrotico di Alex e del suo cane, Jonathan riuscirà a trovare una testimone che ha fatto della propria isba e della propria vita un memoriale. Lei, unica sopravvissuta del villaggio di Trachimbrod, è in grado di consegnare tale memoria al ragazzo, ma anche di restituirla al vecchio che l’aveva spezzata, riconciliandolo infine con se stesso. In questo modo anche il nipote scoprirà la propria vera identità e comprenderà come in realtà ogni cosa sia illuminata dal passato; non basta vivere nel presente, proiettati in un futuro fatto di soldi.
La lezione biblica che se ne può indurre (il film non ha connotazione religiosa) è quella dell’esperienza dell’esilio del popolo ebraico, che deve mantenere viva la memoria del luogo di origine (in questo caso l’Ucraina come Sion) per poter essere, e cercare al tempo opportuno la via del ritorno e della riconciliazione. Lezione è il dolore a volte insopportabile del ricordo e dell’ingiustizia (è il caso del nonno di Alex, ma anche dei nonni di Jonathan), e al tempo stesso, l’alienazione che comporta il rigetto dell’eredità di popolo del Signore (‘se mi dimentico di te Gerusalemme, possa la mia destra restare paralizzata, possa la mia lingua attaccarsi al palato, se non mi ricordo di te, Gerusalemme, se non pongo Gerusalemme sopra ogni mia gioia… Salmo 137). Ancora, la lezione è quella del salmo 78: ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, non lo terremo nascosto ai loro figli.
Ma l’intuizione più straordinaria del film è il modo in cui riesce a mettere in scena la reciprocità delle storie personali, nella diversità, per cui la storia di Jonathan, alla fine, si rivela essere anche la storia di Alex.
Riflettere sul piano religioso su questa fratellanza da sempre negata reciprocamente, a tratti con violenza feroce ed empia, è anch’esso compiere un passo decisivo sulla strada del Ritorno e di una conoscenza più autentica del Padre.
Può essere anche la premessa opportuna per incontrare chi questo viaggio di ritorno sui passi dell’Alleanza e di una autentica fratellanza, lo ha fatto fuori dalla finzione letteraria, con la propria vita.
Si tratta di don Andrea Santoro partito da Roma per la Turchia per riaccendere la memoria nei luoghi che hanno visto nascere l’Antico Testamento e svilupparsi il Nuovo, per creare finestre e ponti spirituali tra ebrei, cristiani delle diverse confessioni e musulmani. Il dvd dal titolo La fede è partenza, realizzato da Paola e Carlo De Biase per ‘Città Nuova’ (2007), raccoglie la testimonianza di don Andrea che ci guida sui luoghi e motiva il senso di questo ritorno in una terra che di lì a poco avrebbe risposto con violenza cieca alla sua testimonianza gratuita di fede e di fraternità.
Il cammino di riscoperta delle proprie origini, ebraiche e cristiane, è al centro di un film singolare di Abel Ferrara che si muove tra finzione cinematografica, realtà mediatica e realtà religiosa autentica. Si tratta di Mary (Italia/Stati Uniti, 2005) presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e premiato dalla giuria interconfessionale cristiana dell’associazione Signis.
È difficile descrivere questo film che presenta la ricerca spirituale del regista attraverso le ricerche dei due protagonisti della narrazione: Marie è un’attrice che ha appena interpretato il ruolo della Maddalena in un film sensazionale realizzato sull’onda del successo di The Passion of the Christ di Mel Gibson, e, non riuscendo a staccarsi dal ruolo, si porta a Gerusalemme alla ricerca delle proprie origini ebraiche e della verità; Ted Younger, invece, è un anchorman televisivo di successo che sta curando degli speciali sulla figura di Cristo. Anche lui è destinato ad entrare in un contatto meno superficiale con la dimensione religiosa, a causa delle complicazioni incontrate dalla moglie in attesa di un figlio.
Il contesto da cui nasce la ricerca religiosa è ancora una volta quello secolarizzato e disorientato dell’Occidente; il punto di partenza è magari utilitaristico e la messa a fuoco dei problemi eterodossa, come i vangeli gnostici a cui fa riferimento il regista del film nel film, ma la questione che ripone al centro dello schermo è quella di fondo: la presenza e l’azione di Dio nel mondo contemporaneo e la risposta dell’uomo. Film complesso, che segue una pista cara alla teologia femminile di riscoperta del ruolo della donna nella storia della salvezza (a restituire la pienezza ‘stereofonica’ del progetto originale di Dio per l’umanità), e dall’altro incrocia il piano della finzione con quello reale: gli ospiti in studio a parlare di Dio sono Luzzatto delle Comunità Ebraiche Italiane, Nicoletto dell’Eremo di Camaldoli, l’ortodosso Leloup, l’esperta di vangeli gnostici Elaine Pagels.
Se siete arrivati fin qui, potreste provare a cimentarvi in una prova più ardua: un film da vivere come una giornata di esercizi spirituali. L’opera è Il grande silenzio di Philip Gröning (Germania 2005), che vi porterà per quasi tre ore dentro la Grande Chartreuse sulle Alpi francesi, ma soprattutto cercherà di farvi fare esperienza di quel tempo sottratto al tempo di cui parlavamo a proposito di Castaway.
Il silenzio dei monaci rotto solo, in sottofondo, dalla preghiera comune o da qualche raro dialogo, fa spazio ai rumori quotidiani, alla natura, e restituisce pregnanza alla Parola di Dio: quella scritta sulle pagine della Bibbia, che appare a tratti sullo schermo a motivare una scelta così radicale, ma soprattutto quella che parla ancora a oggi al cuore dell’uomo attento a coglierla nel mormorio di un vento leggero.